Donne giraffa, le donne dal collo lungo della Birmania.
Indiscutibilmente, quando si viaggia si entra in contatto con usi, culture, costumi e cucine diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati. Molto spesso, scoprire qualcosa di nuovo, ci induce alla riflessione e a scoprire gli antefatti che sottostanno alle varie tradizioni.
Chi sono le donne giraffa della Birmania?
Vicino al confine con la Birmania, nella provincia di Mae Hong Son sorgono numerosissimi villaggi, abitati da altrettante tribù, tra cui i Kayan, noti anche con l’epiteto di Padaung che significa collo lungo.
Le donne di questa tribù infatti sono note per indossare degli anelli di ottone fin da quando sono bambine.
Si tratta di una pratica che inizia a cinque anni, con il primo anello d’ottone attorno al collo, e prosegue per tutta la vita della donna con l’aggiunta progressiva, di anno in anno, di altri anelli di ottone.
Lo scopo è quello di ottenere un allungamento del collo che, di fatto, è solo apparente. Infatti, l’azione esercitata dagli anelli interessa soprattutto le clavicole che, sottoposte al peso e alla pressione continua esercitata dagli anelli, si abbassano e si schiacciano. L’effetto ottico che si ottiene è quello di vedere donne dal collo lunghissimo, in realtà questa pratica comporta un danno irreversibile alla corporatura femminile, determinando una deformazione permanente della clavicola e della colonna vertebrale.
Gli anelli, nel corso degli anni, indeboliscono totalmente i muscoli del collo che diventano inabili a sorreggere la testa. Per questa ragione, in caso di adulterio, una delle punizioni da impartire alle donne è proprio l’eliminazione degli anelli, costringendola a trascorrere il resto della sua esistenza sdraiata.
Soprattutto per gli occidentali, arrivare in questa zona e scattare delle foto alle donne giraffa è una delle maggiori attrazioni, tuttavia, va sottolineato (anche se potrebbe apparire scontato) che si tratta di una tradizione ancestrale, pesantemente dibattuta e polemizzata soprattutto per le gravi conseguenze sul fisico delle donne.
Come nella maggior parte dei casi, soprattutto per queste popolazioni, ad ogni tradizione corrisponde la necessità di differenziarsi dalle altre tribù. Tuttavia, ogni tradizione sottostà a delle spiegazioni e origini che, molto spesso, non son particolarmente chiare.
Nello specifico l’usanza degli anelli al collo sembra avere diverse giustificazioni: parrebbe che si trattasse di un modo per proteggere le donne da eventuali attacchi delle tigri, animali molto presenti in questo territorio, ma potrebbe essere riferibile anche ad una leggenda che lega questa popolazione ai dragoni Naga.
Infine, l’ipotesi socialmente più accreditata è che un collo lungo sia sinonimo di bellezza e ricchezza, quindi è in grado di attirare più uomini permettendo di convolare a nozze con un marito benestante.
Al di là del vero motivo che spinge queste donne a vivere con degli anelli di ottone al collo, è ben chiaro il forte legame che la tribù Kayan ha con il proprio territorio e con il proprio passato che purtroppo è stato caratterizzato da condizioni drammatiche. Il regime militare birmano, infatti, durante il periodo di dominazione ha esercitato un’oppressione tale da violare pesantemente i diritti umani, attraverso il lavoro forzato, la detenzione carceraria e i trasferimenti obbligatori.
Oggi, a causa del rifiuto da parte del governo thailandese di concedere a questa tribù la condizione di rifugiati politici, questa popolazione vive in una condizione di semi prigionia e trae dal turismo una fonte di sostentamento insostituibile. Neanche a dirlo, una delle principali attrazioni sono proprio le donne giraffa.
Per questo, numerose organizzazioni umanitarie concordano sul fatto che, al di là del legame con la tradizione, il proseguo della pratica degli anelli di ottone sia proprio legata alla sopravvivenza di questo popolo.
Attualmente, l’entrata nei villaggi della tribù Kaya costa, all’incirca, 250bath che vengono divisi con il governo per questo agenzie di viaggi e turisti, molto spesso, si rifiutano di continuare a sovvenzionare una condizione umana davvero deplorevole su cui il governo sembra non voler intervenire.